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 07-Ottobre-13

Lettera dell'assessore alle Politiche Sociali Anna Tempestini sulla tragedia di Lampedusa

Le immagini che ci vengono da Lampedusa sono un pugno nello stomaco, una visione insopportabile per tutti noi.

E dietro quelle immagini il dramma di tante donne, uomini, bambini e tanti ragazzi, che fuggono da guerre, fame, dittature e che, nella consapevolezza dei rischi che li attendono, scelgono comunque la speranza di una vita migliore, oppure la morte.

Non è più il tempo delle riflessioni ma quello delle azioni; in un paese come il nostro, assediato dai problemi economici e sociali, questo dei migranti non è un problema residuale, qualcosa di cui non è urgente occuparsi.

Lo è senza dubbio per motivi umanitari: non possiamo più tollerare simili tragedie e pensiamo a quante avvengono senza che ne veniamo a conoscenza.
Lo è perché le migrazioni non si fermano solo con i pattugliamenti sulle coste ma con interventi di normalizzazione nei paesi dove da troppo tempo si consumano drammi inimmaginabili e verso i quali è necessaria l’attenzione dell’Europa e del mondo .

Lo è perché da troppo tempo si conoscono i traffici di esseri umani che alimentano un mercato di criminalità che si arricchisce sul dramma e sul dolore di tanti, cose che le associazioni umanitarie e i migranti che arrivano nel nostro paese denunciano da tempo.

E l’Italia della gente di Lampedusa che si prodiga nei soccorsi e nell’accoglienza e non può più sopportare il peso di uno stillicidio di tragedie e di sbarchi senza che ci sia un’idea di come si può affrontare sistematicamente il problema.

Questo nostro paese, su questo come su tanti altri problemi, ha perso tempo prezioso nell’insopportabile utilizzo strumentale delle paure e delle diffidenze della gente, soprattutto in una fase di difficoltà generale che spinge non verso l’apertura ma verso la difesa nei confronti degli altri e della minaccia al “nostro mondo”.

Ed è tempo di rivedere la legge Bossi Fini e di avvicinarsi all’Europa anche sul tema dei diritti, nella consapevolezza che la chiusura e le politiche di retroguardia ci fanno arretrare non solo sul piano della solidarietà diffusa, ma anche della capacità di crescita e questa è una grande responsabilità della classe dirigente diffusa che deve non parlare alla “pancia” ma elaborare strategie e diffondere messaggi di visione di futuro.

 

 
 
 

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